AedeM
Una produzione di Opificio 03
Scritto da Silvia Ponzo
Regia di Nino Sileci
Lo spettacolo
Il mito di Medea è forse quello che nei secoli è stato oggetto del maggior numero di riscritture, segno costante di un mito archetipico della cultura occidentale che non ha ancora perso il proprio potenziale di ispirazione. Opificio03 parte dalla tragedia di Euripide per attuare una riscrittura tesa ad indagare il vero nucleo della tragedia e a chiedersi in che modo il mito di Medea può ancora vivere nel mondo contemporaneo.
Cos’è, o meglio, chi è Medea dopo 2500 anni dalla sua prima scrittura? Se la principessa di Colchide, figlia del discendente del dio sole, si trovasse a Termini nel 2023, chi sarebbe oggi Medea? La sua storiasarebbe la stessa?
La risposta è sotto gli occhi di tutti, sulle pagine dei nostri giornali, dentro i post suoi social, i tweet dei politici, negli annunci dei telegiornali. Si parlava di nucleo tragico: la tradizione, figlia anche della lezione senecana, ha spesso identificato Medea con l’infanticida, la madre degenere, la pazza.
Ma Medea è prima di tutto una straniera, accettata dalla comunità solo in funzione del proprio status di sposa di un membro di quella comunità stessa; quando viene meno quello status ecco che la rovina può ricadere su di lei, ecco la perdita di ogni diritto. Il vero motore che la spinge non è la vendetta, ma la rivalsa, la ribellione violenta e caotica ad un mondo più violento di lei che la rilega al ruolo di eterna vittima, l’unico ruolo possibile per una donna straniera. Duemila anni fa, come oggi.
“Aedem” diventa quindi il mezzo per parlare di cosa vuol dire essere stranieri oggi; di cosa vuol dire essere senza casa, senza patria, senza diritti, di cosa vuol dire vivere per strada, essere migranti, e lo fa attraverso il mito di Medea.
Note di regia
Sul palco, la casa di Medea: sbilenca, sporca, arrangiata, come tante case non-case che occupano gli angoli delle nostre città. Case maleducate, spazi interni costretti ad essere esterni, esposti allo sguardo di tutti, eppure spesso invisibili ai nostri occhi. Case create dal niente, da quello che le altre case, quelle “vere”, scartano, rifiutano, buttano via.
Dalla spazzatura nasce la casa di Medea. La scenografia viene quindi realizzata avvalendosi dell’utilizzo della plastica e del cartone, di oggetti della vita di tutti i giorni, degli scarti. La scelta però non è solo aderente alla realtà di come davvero ci appaiono le case improvvisate di chi sceglie o si ritrova a vivere per strada, ma ha un valore fortemente simbolico: vuole rappresentare in maniera provocatoria il “riciclaggio” eterno del mito. “Riciclare” significa riutilizzare un materiale di scarto, di rifiuto e ridargli nuova vita, ipotizzando un finale completamente diverso, come quello che ci auguriamo per la nostra nuova Medea e per tutte le Medee che, oggi come duemila anni fa, attraversano il mare.
Il testo, nelle parole dell’autrice
La nuova storia della principessa della Colchide e del suo viaggio verso l’Italia, l’ho raccontata attraverso un monologo tragicomico, crudo e poetico che si arricchisce dei racconti di tante altre donne e uomini provenienti dall’Iran, dall’Afganistan, dal Pakistan, tracciando un percorso, purtroppo, comune a tutti.
L’ho fatto leggendo molte delle storie contenute nell’Archivio delle memorie migranti, un mezzo potente che raccoglie podcast, articoli, pagine di diario, racconti di decine di persone che hanno attraversato il mare. Ho letto e ascoltato le loro voci, le ho cercate nella storia di Medea. Ho ascoltato i loro accenti e quelli delle tante persone che vivono per strada, molto spesso migranti, che popolano Roma e tutte le nostre città. Ho cercato di riprodurre una parlata che potesse essere giusta per la mia Medea. Una parlata sgrammaticata, di chi impara l’italiano ascoltandolo, ma che tradisce la sua cultura. Medea è una guaritrice, una donna colta; oggi avrebbe una laurea, come molti dei ragazzi che hanno studiato all’università di Addis Abeba o di Damasco e che lavano vetri ai nostri semafori. La sua Colchide è una terra lontana, perduta, che vive solo nel suo ricordo. La sua cultura immaginaria è un insieme di tradizioni mediterranee e non solo: la Grecia di ananke, la Sardegna delle processioni contadine di animali inghirlandati, l’Armenia del ghapama, l’Etiopia del difret. Un calderone di parole e immagini che disegnano l’archetipo della straniera. Medea viene da ovunque e da nessun posto.