Sul palco
“Uno spettacolo corale, potente, con una scenografia pressoché inesistente se non quella dei ruderi del Mausoleo, per dar voce e corpo agli attori e ai loro personaggi…”
Le idi di marzo, liberamente ispirato al “Giulio Cesare” di Shakespeare, rivisita il conflitto esemplare e sempre attuale tra democrazia e autoritarismo, tra repubblica e impero e svela magistralmente la dimensione teatrale della politica, la sua retorica, la sua finzione; una storia, dunque, che parla del potere e delle sue forme, che affonda le sue radici nell’antichità ma resta attualissima nello svelare gli inganni della politica di oggi. In una messinscena scenograficamente minima, lo spettacolo è affidato alla potenza del testo e alla fisicità degli attori che ci mostrano come la storia si sveli come una grande arena della persuasione in cui la forza della parola, la simulazione e la dissimulazione forgiano i destini degli uomini. La trama è semplice e lineare: l’assassinio di Gaio Giulio Cesare visto dagli occhi dei suoi protagonisti.
Uno spettacolo corale, potente, con una scenografia pressoché inesistente, per dar voce e corpo agli attori e ai loro personaggi, che seguono una coreografia che ricorda a un tempo danze tribali e la Haka della nazionale di rugby neozelandese All Blacks, col torso nudo e tatuato a contraddistinguere le parti contrapposte, Bruto/Cassio e Cesare/Marco Antonio, mentre l’indovino fa quasi da voce narrante, avvertendo, inascoltato, Cesare del pericolo delle idi di marzo. A nulla varranno consigli e raccomandazioni, senza esito il sogno premonitore della moglie Calpurnia, Giulio Cesare andrà in Senato ed incontro alla morte, colpevole di aver tradito gli ideali repubblicani di Roma.
L’intera vicenda narrata è avvolta da un considerevole numero di quesiti che assumono un significato pressoché ancestrale. È legittimo uccidere un uomo solo che si ritrova ad accentrare nella propria persona un immenso potere? Oppure gli uomini sono dominati dal terrore se sono governati da un qualcosa che non abbia il volto riconoscibile di un uomo solo? Se siamo liberi, abbiamo terrore di esserlo e ci affidiamo a qualcuno, a un uomo che si prende la briga di guidarci e in cambio ci chiede la nostra libertà e noi gliela concediamo ben volentieri? Convinti di agire per il bene dello Stato, i congiurati decidono di rimuovere il problema alla radice: uccidere l’uomo che è diventato un tiranno. Si accorgono presto, però, che l’identificazione tra Cesare e Roma è ormai irreversibile. Prendendo il potere, Cesare ha impersonato lo Stato, lo ha plasmato a sua immagine e somiglianza, tanto che, anche dopo il suo assassinio, niente potrà essere più lo stesso. Uccidere Cesare non può bastare se il suo potere risiede nella comunità che lo subisce e che arriva, inaspettatamente, a proteggerne e tutelarne il dominio. Ogni personaggio sulla scena si agita e combatte per trovare una risposta risoluta a questa domanda: Si deve uccidere un Dittatore?
C’è chi, come Cassio, reputa insopportabile che un uomo con le sue stesse capacità fisiche ed intellettuali, possa ergersi al di sopra di tutti gli altri visto che, nei secoli addietro, il potere è stato gestito da uomini comuni anonimi e indistinguibili, preoccupati esclusivamente del bene collettivo. Bruto, invece, si trattiene dall’agire e dal condannare l’ancor potenziale dittatore Cesare, perché non ha mai fatto prevalere la passione sulla ragione e l’abuso della grandezza si ha solo quando essa distingue la pietà dal potere. Antonio, dal canto suo, intuisce una parziale piacere che hanno gli uomini nell’ essere controllati e accetta ben volentieri di annullare il suo libero arbitrio per seguire ciecamente un essere che si assume la responsabilità di governare.
Qual è, quindi, la strada giusta da intraprendere, ammesso che ce ne sia una? Probabilmente, l’umanità non raggiungerà mai una considerazione finale.
La lotta per il potere comincia con la nascita dell’umanità. Sin dagli albori della sua storia, l’uomo ha combattuto per prevaricare sugli altri. L’assassinio di Cesare è solo una delle innumerevoli congiure che si sono susseguite nei secoli. La storia del secolo scorso è stata attraversata da molte infami dittature e altre sembrano affacciarsi in questo oscuro inizio del nuovo millennio. Sembra esserci un destino inesorabile che ci riporta continuamente a dover fare i conti con questo spettro, brutale e contraddittorio. Perciò, addentrandoci nel nucleo e puntando sull’elemento universale della vicenda, non è importante che l’evento sia ambientato a Roma nel 44 a.C. tra le mura del Senato. Potrebbe essere accaduto duemila anni prima o tremila anni dopo perché la lotta per il potere è indissolubilmente legata alla storia dell’umanità. Potremmo trovarci in un futuro dispotico, dove l’umanità ha dovuto fare i conti con una guerra atomica e si è trovata a regredire da un punto di vista non solo tecnologico ma anche politico e sociale. Per questo motivo, i costumi non rispettano un rigore temporale con la Roma repubblicana ma assumono una connotazione selvaggia, tribale, animalesca. I personaggi si scrutano, si annusano, si azzuffano, ringhiano come componenti di un branco di bestie. Non dimentichiamo che anche i lupi o i leoni si affrontano per eleggere un capobranco o lo azzannano per destituirlo. E noi uomini, per concludere, con il nostro processo evolutivo e il conseguente sviluppo intellettivo, ci sforziamo di celare la nostra primordiale natura spesso ci dimentichiamo quello che siamo nella profondità del nostro essere: animali.
“Uno spettacolo corale, potente, con una scenografia pressoché inesistente se non quella dei ruderi del Mausoleo, per dar voce e corpo agli attori e ai loro personaggi…”